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                  Ittiofagi, mangiatori di  pesce, vengono chiamati gli abitanti delle Dahlak dal commerciante  greco che scrisse quasi duemila anni fa il “Periplo del Mare  Eritreo”. E ben si capisce, visto che le isole non offrono molto  altro a causa della scarsa piovosità. A dir la  verità, qualche  tentativo di coltivazione ci deve anche essere stato, almeno a  leggere il resoconto della visita a Dahlak Kebir fatto da Arturo  Issel, un geologo italiano che, verso il 1870, osservò piccole  coltivazioni di sorgo nei pressi del villaggio di Jemila. Qualche  coltivazione è stata tentata anche in questo secolo, ma non deve  essere stata un grande successo visto che al giorno d’oggi le  uniche  
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                  fonti alimentari locali sono la pesca e l’allevamento di  capre. Tutto il resto deve essere importato dai commercianti  dell’isola. Passate di mano tante volte,  le isole sono un crogiuolo di etnie, ma solo Dahlak Kebir, Norah e  Dohul sono abitate dopo il recente abbandono di Harat e Nocra. Tutti  gli abitanti, forse 2000, sono mussulmani. Molti si dichiarano eredi  del sultanato e parlano una lingua semitica tutta loro, scoperta solo  pochi anni fa, il dahlik, imparentato con il tigrino, la lingua  dell’altopiano eritreo. L’anima commerciale però fa sì che  molti, soprattutto gli uomini, siano plurilingui ed è perciò facile  incontrare qualcuno che parla l’arabo, l’italiano,   | 
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                     l’amarico o  il tigrino. L’isolamento  dell’arcipelago ne ha ritardato il moderno sviluppo e la maggior  parte dei villaggi abitati si dibatte col problema maggiore, la  scarsità d’acqua, che per di più non è mai potabile. Le  infezioni intestinali, oltre a problemi agli occhi, sono perciò le  malattie che più affliggono i locali. La malaria per fortuna non c’è  perché le zanzare che la trasmettono non trovano sulle isole gli  ambienti adatti alla loro riproduzione. Qualche segno di progresso  per fortuna c’è. Cliniche e scuole elementari sono state costruite  in diversi villaggi, anche se per frequentare le scuole secondarie  bisogna trasferirsi a Massawa. A  
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                  Jemila, sull’isola maggiore, c’è  una stazione telefonica e sulle case di Dohul sono numerose le  antenne paraboliche. Tramontata l’era delle perle  e, per fortuna, della tratta degli schiavi, le attività economiche  si riducono all’allevamento di capre e alla pesca. Quest’ultima è  in parte di sussistenza, in parte commerciale anche se fatta per lo  più con tecniche antiche e con l’uso dei tradizionali sambuchi. Si  pescano cernie, dentici, barracuda e pesci d’alto mare con l’uso  di lenze; i pescecani e i gamberetti con le reti; le oloturie con  brevi immersioni in apnea. Una parte del pesce fresco viene esportato  in Europa, le pinne di pescecane   | 
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                  e le oloturie vanno verso il lontano  oriente, il resto rifornisce il mercato interno. Qualche villaggio  tenta anche di raggranellare qualche nakfa, la moneta eritrea, con la  vendita di conchiglie ai turisti. Forse la costruzione di piccoli  complessi turistici porterà qualche soldo in più.                     
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